I dati evidenziano una situazione complessa.
Per assicurare
l’accesso ai servizi per la prima infanzia è necessario che esista un’offerta
congrua di posti in asilo nido sul territorio preso in analisi e che il
servizio sia accessibile, in termini di costi, per le famiglie. Nel 2013, la Commissione
europea ha redatto una lista di criteri da osservare per contrastare la povertà
minorile (“Investire nell'infanzia per spezzare il circolo vizioso dello svantaggio sociale”) quali importanti investimenti sui bambini e le famiglie,
contemperando politiche universali e specifiche, oppure una maggiore attenzione
alle pari opportunità educative, per scongiurare rischi di ulteriori
disuguaglianze. Senza un’attuazione concreta, però, questi enunciati restano
tali. A ben vedere, uno degli ostacoli più difficili da superare è il costo
della tariffa, peso economico non indifferente: perciò, sarebbe auspicabile la
possibilità di un accesso a costi più “sostenibili”.
Come
evidenziato da Openpolis, da cui traggo spunti di riflessione per l’argomento,
il primo punto della questione è rappresentato dalla gestione comunale dei
servizi per la prima infanzia. Un’opzione sarebbe quella di “costruire e
mantenere asili nido e servizi per la prima infanzia comunali, gestendoli
direttamente con dipendenti dell’ente”: con questa modalità sarebbero accolti
più della metà degli utenti di nidi e servizi offerti dai comuni (102mila
bambini circa nel 2015). In alternativa, lo studio propone che gli asili nido
di proprietà comunale, mantenendo la tariffa del comune, possano essere anche
appaltati in gestione a terzi (come operatori del privato sociale): questa modalità
accoglierebbe quasi 50mila bambini. La terza opzione sarebbe stipulare una
convenzione con un nido privato, per garantire una riserva di posti da offrire
ai canoni stabiliti dal comune, attirando 25mila utenti. L'ultima possibilità sarebbe
offrire contributi direttamente alle famiglie, da spendere in servizi privati o
pubblici (anche qualche partito aveva teorizzato una linea del genere),
attirando 14mila utenti. I servizi comunali vengono
assicurati a quasi 200mila utenti, cioè il 12,6% della popolazione di
riferimento (0-2 anni) e la spesa totale (2015) è stata di 1,48 miliardi di
euro (l'80% a carico del comune e il 20% a carico delle famiglie come compartecipazione).
In Italia la spesa media dei comuni in servizi di prima infanzia per ogni
abitante tra 0 e 2 anni è pari a 787 euro e la quota compartecipazione delle
famiglie è pari al 19,4%.
Il secondo
problema della questione riguarda la differenza territoriale. In particolare,
duole ricordare che sussiste un’evidente disparità tra Nord e Sud. Nel
centro-nord, infatti, nonostante la quota di compartecipazione a carico delle
famiglie sia più elevata, i comuni investono più risorse nell’erogazione di
detti servizi. Le Regioni di quest’area che realizzano una spesa maggiore sono
Valle d’Aosta, Trentino Alto-Adige, Emilia-Romagna e Lazio e le province nelle
quali i comuni hanno speso mediamente di più sono Aosta, Bologna, Trieste,
Trento, Roma, Ferrara, Firenze, Ravenna, Parma e Modena. Nel meridione, invece,
nonostante la quota di compartecipazione sia meno elevata, il servizio erogato
ai cittadini è meno finanziato. Le Regioni interessate, in quest’area, sono Campania, Puglia, Basilicata e Calabria, e le province nelle quali i
comuni presentano una spesa più bassa sono Caserta, Vibo
Valentia, Crotone, Reggio Calabria, Cosenza e Catanzaro
(Sfortunatamente, tutte e cinque le province calabresi).
Cosa
fare di fronte a questa situazione problematica? L’unica speranza sarebbe una
presa di coscienza da parte degli amministratori, che dovrebbero prendere
esempio dalle realtà virtuose per esportare quei “modelli” nei territori che
presentano maggiori difficoltà. Non è possibile che ancora oggi esistano
bambini “di serie A”, che possono permettersi tali servizi, e bambini “di serie
B”.
foto tratta da secondowelfare.it
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